
Fobia Sociale: oltre le solite definizioni
Che cos’è la Fobia Sociale?
Per “fobia” si intende una paura irrazionale e immotivata verso una situazione esterna. La psicoanalisi ha visto in questo una proiezione all’esterno di angosce che sono invece interiori, con conseguenti condotte di evitamento. Cioè, come intuì Freud, e detto nel modo più semplice possibile: da un disagio personale non possiamo sfuggire, se lo mettiamo all’esterno possiamo evitarlo.
Se cercate una definizione di fobia sociale (“paura di agire di fronte agli altri in modo imbarazzante…” etc.) o una descrizione della stessa (tipo: “le persone che provano tale disturbo…” etc.), potete trovare in internet un sacco di articoli ben fatti su questo. Io vorrei evitare di parlarne.
Come sarebbe possibile evitare il sociale? Non è forse spesso più malata la società dell’individuo? Dove finisce l’individuo e dove inizia la società? Bisognerebbe parlare a lungo su queste domande senza riposta, e su dove stia la malattia, ma ciò di cui ci occupiamo non è la malattia, ma la persona, cioè un individuo che soffre. Poiché la fobia in questione riguarda un concetto così vasto come la “socialità” (che non basterebbe tutto lo spazio della rete per definirlo), mi offre l’occasione di parlare un po’ meglio di sintomo e malattia.
Sintomo e malattia
“Se sentiamo parlare un cinese, siamo portati a prendere le sue parole per un gorgoglio inarticolato. Chi capisce il cinese vi riconoscerà invece il linguaggio. Così, spesso, io non so riconoscere l’uomo nell’uomo.” L. Wittgenstein Pensieri diversi
Iniziamo chiedendoci che cos’è una sofferenza mentale? Tutti in quanto uomini ne abbiamo una conoscenza almeno intuitiva, e sperimentiamo il disagio mentale ogni giorno.
Ma quando è necessaria una risposta? Innanzitutto quando viene chiesta (la motivazione al cambiamento è, infatti, fondamentale in ogni approccio terapeutico), cioè quando il livello di sofferenza mentale è tale da impedirci di vivere la nostra quotidianità e di “fare quello che facevamo prima”.
Quindi c’è una continuità tra il disagio che possiamo sperimentare nella vita di tutti i giorni e il disagio che diventa disturbo, cioè “disturba” la nostra vita.
Ma c’è anche una diversità – uno scarto, uno scalino – tra il disagio psichico sopportabile e quello che invece richiede una risposta, un intervento. Potrebbe essere questo un altro modo (pragmatico) di distinguere normalità e patologia, e di riconoscere nel malato un “simile” (sofferente ma in grado più elevato) e un “diverso” (malattia da curare).
Quando, infatti, il disturbo si cronicizza diventa sintomo, e un insieme di sintomi diventa una sindrome. Ritroviamo in diverse persone, ognuna con una sua storia e un proprio carattere, una costellazione di disturbi che si ripetono quasi invariati che andiamo a classificare (sindromi psicopatologiche).
E’ chiaro inoltre che la definizione di queste sindromi dipende dal contesto sociale e culturale in cui le classifichiamo.
Il sintomo è quindi un “indizio di malattia”, come nella medicina somatica. E’ qualcosa da descrivere, e infatti lo si fa, ma è anche un segno, un linguaggio, un messaggio che va letto (ascoltato e capito). Non è solo qualcosa che va eliminato. Ogni sintomo è legato alle esperienze del soggetto in un processo di significati recuperabili, ed è esso stesso un’esperienza.
Un certo tipo di cultura psichiatrica e psicologica si diverte a nominare ed elencare sintomi, probabilmente perché nominare qualcosa ci illude di avere un controllo sulla stessa. Io penso che il sintomo vada letto, cioè che è importante capire che senso ha. E anche che senso ha che una certa società definisca una certa sofferenza con un certo nome.
Non siate timidi!
E’ più interessante come questa sindrome (fobia sociale) abbia una familiarità con l’idea più comune di timidezza. Una specie di timidezza eccessiva. O con la paranoia, una specie di sospetto eccessivo. Frasi come quella del titolo sprofondano ancora più il timido nella sua sofferenza e confermano i sospetti del paranoico. Sulla timidezza e la vergogna mi vengono in mente molte cose, ma tutte affrontabili solo di persona, cose di cui ha poco senso per me parlarne fuori dalla stanza d’analisi, come dire “in società”.
Inoltre un canale di comunicazione come questo di internet non è adatto a queste discussioni, non perché sia troppo vasto, ma perché troppo stretto. Troverete comunque anche in questo caso molte altri articoli scritti meglio “navigando” in rete (occhio agli iceberg!).
Come si cura
Per i motivi che ho descritto sopra si potrebbe dire che non esistono sintomi. Cioè che esiste una sola unica sofferenza mentale che si declina in diverse forme. Non sono così convinto però, un po’ mi vergogno delle mie idee. Meglio dire che il sintomo ha senso per il paziente – come evento che lo disturba e che riconosce in parte estraneo e indizio di malattia – e ha senso per gli specialisti – che possono così trovare delle costanti utili a comprendere le sindromi -, ma la persona è tutt’altra cosa. Quindi va bene che ci sia un DSM- IV o V, e che ci siano persone che si riconoscono in queste definizioni, ma che ci sia qualcuno che scrive su questo (come me) e qualcuno che legge (come voi), questo sì potrebbe essere un indizio di malattia (sociale).
Allora direi che se siete convinti di avere una malattia che si chiama fobia sociale e volete eliminarla, cercate un terapeuta che volga il suo sguardo su questo sintomo assieme a voi.
Se invece siete una persona che soffre, e che non riesce ad uscire da questa sofferenza, potreste essere aiutati a stare meglio da uno psicoterapeuta in grado di ascoltare la vostra sofferenza, affinché ve ne liberiate (della sofferenza e del terapeuta).
Spunti per riflettere…
Due film
Emotivi Anonimi di Jean-Pierre Améris, Francia – Belgio 2010. 80’
Lars e una ragazza tutta sua di Craig Gillespie, USA 2007. 106’
Una canzone
Il sociale e l’antisociale di F.Guccini, Folk Beat n.1, 1967
Un libro
1984., G. Orwell, Mondadori, Milano 2002 (1949).