Perché pagare lo psicologo?
Perché pagare una persona da cui ricevere aiuto quando potremmo trovare da qualche parte qualcuno bene intenzionato ad aiutarci senza richiedere nulla in cambio?
La domanda può apparire ingenua, ma è legittima, e come tutte le domande troppo ingenue, (ad esempio quelle dei bambini), nasconde una certa complessità. Sicuramente una risposta abbastanza di senso comune sarebbe che lo psicologo è un professionista, un esperto nel trattare queste questioni, perché è il suo lavoro, e in quanto tale è giusto pagarlo. Ciononostante rimane la sensazione che il denaro sia una questione che tende a sfavorire la relazione, e che in generale non si addica ad una relazione di aiuto. Nello stesso tempo nella nostra cultura la gratuità si accompagna al sospetto di una certa fregatura.
Cerchiamo di capire:
- Primo colloquio gratuito: perché crea confusione
- Primi incontri
- Setting
- Esempi del valore del denaro nella relazione terapeutica
- Conclusioni
Primo colloquio gratuito: perché crea confusione
Una prima considerazione riguarda la consultazione psicologica, cioè quella fase iniziale di valutazione e conoscenza tra il terapeuta e il paziente che ha l’obiettivo principale di valutare assieme la motivazione e le risorse per intraprendere una psicoterapia. Alcuni colleghi propongono un primo colloquio gratuito. Questa può essere una formula all’apparenza comoda, ma che può creare confusione nel paziente. Veicolare il messaggio che i soldi non sono importanti in una società basata su un sistema economico liberista mi sembra pericoloso, quantomeno non aderente alla realtà. Sentire che sia il terapeuta che il paziente di fronte alle necessità quotidiane sono sullo stesso piano mi sembra rassicurante. Il pagamento come professionisti è perlomeno perfettamente inserito nel contesto socio-economico e culturale in cui viviamo, e promuove l’esame di realtà. Ad esempio, accade a volte che una persona che cerca aiuto inizi a “girare” diversi terapeuti per capire quello con cui si trova meglio, non considerando le sue proiezioni personali e l’impatto significativo che può avere anche una percezione di disagio. Nella consultazione è importante anche cogliere assieme che cosa provoca disagio nell’incontro o in generale nel fatto di “andare da uno psicologo”.
Primi incontri
In questi primi incontri si attivano importanti sentimenti nel paziente e nel terapeuta, che sono sin da subito necessari per avviare un processo terapeutico o quanto meno di chiarimento per il paziente. Ho l’impressione che il colloquio gratuito possa spostare questa relazione verso qualche cosa di più superficiale. Ma un altro aspetto, più importante, mi sembra riguardi la responsabilità del terapeuta nel fornire una risposta al paziente.
Nel momento in cui sono pagato, come terapeuta, mi sento autorizzato a dire quello che penso, anche se non è piacevole, e lo stesso vale immagino per il paziente. Poiché sono pagato, sin da subito, ho la responsabilità di fornire una risposta, una prima “soluzione”, o meglio un’indicazione riguardo ai motivi che hanno spinto il paziente ad andare da uno psicologo. Di solito propongo alcuni trattamenti che penso potrebbero essere utili al paziente considerando le sue criticità e le sue risorse personali. Mi sento comunque obbligato a fornire una risposta e mi sembra di prendermi in carico il problema del paziente sin da subito.
Se il colloquio fosse gratuito non sentirei questa esigenza come una responsabilità, e potrei “liquidare” il paziente in diversi modi, e lui potrebbe fare lo stesso con me, senza che tra noi sia avvenuto qualche cosa che possa aiutarlo a capire meglio se stesso. Quindi sin dall’inizio di un possibile percorso assieme, i motivi che riguardano il pagamento, oltre ad essere gli stessi per qualsiasi attività professionale, nel nostro caso coinvolgono la stessa relazione che è il veicolo fondamentale del processo terapeutico. In questo senso il tema del pagamento assume dallo psicologo una tonalità affettiva che già ci può far capire qualche cosa di noi stessi, e in generale della relazione. Senza questo elemento, ho l’impressione che saremmo costretti a toglierci molte possibilità di incontro e di comprensione, sebbene superficialmente si potrebbe pensare che un incontro che è “gratuito” ci renda più vicini, a mio parere ci rende più distanti, perché ci toglie una possibilità di fare esperienza di noi stessi.
Setting
Perché pagare la psicoterapia?
Lo sguardo degli uomini ha di peculiare che può rendere le cose più preziose,
certo così sono anche più costose.
L.W. Wittgenstein, Pensieri diversi
Le stesse considerazioni possono valere per un rapporto psicoterapeutico, ma qui la questione mi sembra ancora più complicata. Nella psicoterapia stabiliamo assieme al paziente un contratto terapeutico che ha una cornice precisa. Questa cornice è il setting, che sono le regole di base entro cui può funzionare la relazione, ed ha una funzione di “contenitore” per questa. La domanda più precisa sarebbe allora se è possibile escludere dal setting terapeutico la questione del pagamento. Questa sarebbe una discussione che ci porterebbe lontano e penso possa trovare un giusto luogo nella letteratura scientifica di riferimento.
Al fine di evitare interminabili disquisizioni teoriche e di metodo, che annoierebbero me a scriverle e voi a leggerle, provo allora a tracciare alcuni pensieri molto personali tratti dalla mia pratica clinica per dare una vaga idea del problema e delle mie soluzioni personali.
“Poverino!”
Ad alcune persone tutti dicono “poverino!…”, questo è molto svalutante (o sadico). Non penso mai che i miei pazienti siano “poverini”, (poveri, privi di ricchezza), o sfortunati (sfigati) o dei bambini (piccoli). Li tratto come persone adulte, capaci di pensare e di essere indipendenti, e con un valore personale. Penso che il loro mondo interno sia ricco, e che siano capaci di attivarsi per essere più indipendenti, anche economicamente. Altrimenti non li avrei presi in terapia se avessi pensato che non hanno le risorse per farlo…
“Per lei dottore è facile…”
L’idea che il proprio terapeuta sia ricco e sereno è una idea legittima ed anche utile perché un certo grado di idealizzazione è necessario. Ma da qui a fantasticare che il terapeuta abbia tutte le cose buone, e noi siamo piccoli e cattivi il passo è breve. “ Potrebbe essere che il terapeuta è ricco, e non ha bisogno dei vostri soldi, e non ve li chiede. Ma che genitore è uno che dice: – puoi avere tutto quello che vuoi!-, sarà capace di affetto?” (W.R. Bion, Seminari Brasiliani)
Il tempo è denaro
L’orario settimanale delle sedute riguarda il tempo lavorativo, tutte le settimane, alla stessa ora. E’ il tempo impiegatizio, quello del lavoro nelle società industriali. All’interno della seduta c’è un tempo diverso, più introspettivo, liquido, si espande e si contrae. E’ il tempo del soggetto che non è quantificabile.
Dottore, le devo tutto…
Ho detto che ci occupiamo del senso simbolico che ha il denaro, è questo è per me principalmente la dimensione psichica del debito. Si potrebbe stabilire una equivalenza simbolica tra debito e colpa. Penso che il paziente non dovrebbe avere un debito con l’analista, né viceversa. Affinché la relazione funzioni è utile che tutto torni tra le parti sul piano dello scambio, almeno nella fantasia. Il debito cancella questa possibilità. Per lo stesso motivo non è bene che terapeuta o paziente intrattengano qualsiasi tipo di rapporto economico al di fuori delle sedute. L’altra faccia del debito è la gratitudine, quella che si può sperimentare assieme in un percorso autentico (non solo quella del paziente alla fine della terapia o del terapeuta alla fine del mese).
Alcuni esempi del valore del denaro nella relazione terapeutica
- Un paziente giocatore patologico di azzardo che si era praticamente giocato tutto (Vedere il romanzo di Osborne “La ballata di un piccolo giocatore” sul significato di giocarsi tutto), ha continuato a giocare durante la terapia, ma ha sempre regolarmente pagato tutte le sedute a fine mese. Sosteneva che un debito è per sempre.
- Una paziente con forti ansie di abbandono pagava la terapia sempre dopo le vacanze concordate, per essere sicura che io ci fossi al ritorno.
- Una paziente adulta faceva pagare la terapia ai genitori perché sosteneva che era loro la colpa dei suoi malesseri e del motivo per cui era in terapia.
- Un paziente che faticava a contattare il suo mondo interno voleva assolutamente pagare le sedute saltate per essere libera di non venire in terapia.
- Una paziente a fine seduta mi dice: ”Dottore ho dimenticato di portare i soldi del mese, lo interpreti pure!”. E se ne va.
Conclusioni
Come avrete già capito, sono tra quelli che considerano il pagamento un elemento essenziale nella psicoterapia psicoanalitica. Questo non significa che il paziente debba rinunciare a troppe cose per la terapia, questo sarebbe masochistico e lo renderebbe di nuovo troppo dipendente. E nemmeno che io sia un terapeuta che non abbia mai fatto sconti, o aiutato economicamente un paziente in difficoltà. Ma me ne sono sempre pentito.
Il punto è che il denaro è anche una grande metafora, perché ha una sua doppiezza intrinseca: da un lato è oggettivo, reale, è un limite alla nostra onnipotenza, dall’altro il suo valore è sin dall’origine simbolico, e quindi anche molto soggettivo, e comunque difficile da stabilire. In definitiva direi che il fattore denaro è oggettivo e simbolico assieme, quindi reale, e qualsiasi aspetto della realtà che ci permette di pensare e di relazionarci in modo più consapevole mi è utile nella terapia, mentre qualsiasi tentativo di eludere una possibilità di esperienza è antiterapeutico. Quindi per vari motivi potremmo escludere il denaro da una relazione terapeutica, ma questo per me renderebbe tutto più difficile o meno autentico. Dare il giusto prezzo (valore) a noi e a ciò che facciamo è una questione molto complessa, per usare un gioco di parole, non ci sono soluzioni gratuite.