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Libere considerazioni sulle psicoterapie online.

“di respirare la stessa aria di un secondino non mi va

Per questo ho scelto di rinunciare alla mia ora di libertà”

F. De Andrè

In seguito alla pandemia di covid-19 vi è stata un notevole diffusione delle psicoterapie online. Tutti i colleghi si sono trovati alle prese con questa modalità in fase di emergenza ed ora, ciò a cui assistiamo, è una diffusione delle psicoterapie da remoto come mezzo non più emergenziale ma di prassi abituale.

Vorrei dunque proporre alcune riflessioni basate sulla mia esperienza clinica, sulle osservazioni che ho avuto modo di fare nel corso della mia pratica e da quella di alcuni colleghi, e che ho raccolto dai pazienti stessi. Cercherò dunque di inquadrare anche queste osservazioni all’interno della mia teoria della tecnica di lavoro.

Le differenze tra gli incontri in presenza e da remoto si possono elencare in tre punti:

  1. l’ambiente in cui ci si incontra;
  2. la sensorialità;
  3. le potenzialità insite in un incontro in presenza rispetto ad un incontro virtuale.

1.      L’ambiente

In presenza il clinico riceve nel suo studio. È un suo ambiente, predisposto e pensato per favorire il più possibile i processi mentali del paziente e della coppia paziente-terapeuta con un fine psicoterapeutico. Il clinico è il solo responsabile dell’ambiente terapeutico, della sua riservatezza, del suo isolamento e della protezione da intrusioni esterne. L’ambiente fisico è metafora dell’ascolto terapeutico: è un luogo dove si viene a portare dei contenuti personali, a cui si pensa in modo proiettivo tra una seduta e l’altra, dove l’analista lavora, riflette, studia.

Viceversa da remoto, il paziente diviene parzialmente responsabile della tenuta dell’ambiente di ascolto.

Può decidere di effettuare la videochiamata a casa, in una stanza piuttosto che un’altra, ma non sempre riesce a limitare le intrusioni del suo ambiente di vita abituale.

Su questo posso testimoniare le più varie situazioni dalle più innocue alle più gravi.

In un’occasione, a metà di una seduta, la connessione si è interrotta e quando ho riattivato la chiamata su skype mi sono trovato di fronte un signore mai visto che non sapeva spiegarmi cosa ci facessimo lì. Poi ho ricostruito che la paziente usava un account aziendale per le chiamate e quando ho richiamato mi ha risposto un suo collega.

In altri casi, nella “stanza di terapia” entra il figlio della paziente per venire a vedere cosa fa mamma, oppure la paziente, in assenza di un ambiente idoneo e riservato si connette dall’auto.

Sono sempre situazioni che possono essere evitate, corrette, migliorate o prevenute, ma il punto è che ad ogni modo chiediamo al paziente di assumersi la responsabilità della tenuta di questo spazio di ascolto e ricezione. Responsabilità che in presenza è solo nostra, mentre da remoto chiediamo di condividerla col paziente. I colleghi che ricorrono abitualmente ed in modo esclusivo alle terapie da remoto prevedono un onorario più basso, come a compensare questa condivisione di responsabilità nella tenuta dell’ambiente di incontro. A mio parere l’aspetto economico, più che risolvere la questione, la segnala in modo più evidente: si certifica che l’online vale di meno. Tuttavia per certi aspetti non c’è una scala di valori, o le cose sono fatte bene o non funzionano, diventano altro.

Un altro aspetto è che con le sedute da remoto permettiamo al paziente di farci entrare in una parte della sua vita reale, vedere parti della sua abitazione, gli arredi, i quadri, le foto e le camere dove vive abitualmente. È vero che si possono impostare degli sfondi virtuali. Devo notare che non mi è mai accaduto che un paziente usasse questa impostazione. Anche perché più che risolverlo, con l’uso di uno sfondo virtuale il problema viene aggirato: anche la scelta dello sfondo comunica qualcosa del paziente. È vero che questo, come ogni cosa può essere usato in terapia, ma è anche vero che questo diviene un aspetto coatto ed intrusivo della comunicazione. Inoltre, e questo credo sia più importante perché attiene sempre al senso di assunzione di responsabilità da parte del terapeuta, il paziente non è quasi mai consapevole del senso di intrusione che implica la connessione da remoto in un suo spazio intimo. Riprova ne è, come già dicevo, che non mi è mai successo che un paziente si tutelasse con l’uso di uno schermo virtuale. Per farmi intendere meglio, è una situazione analoga alle limitazioni che abitualmente si danno al rapporto terapeuta-paziente: non sono previsti incontri al di fuori delle sedute e non è previsto che il terapeuta abbia contatti professionali o meno con altri conoscenti del paziente. Questo insieme di accortezze sono esplicitate e rispettate da parte del terapeuta, spesso il paziente non le capisce subito, ma solo in seguito, per poi apprezzarne inevitabilmente l’importanza a posteriori o quando accade qualcosa che finisce per metterne in evidenza l’importanza (ad esempio quando terapeuta e paziente si incontrano fortuitamente al di fuori dello studio). L’uso delle sedute da remoto propone a mio parere una situazione analoga. Il fatto che il paziente non sia disturbato dalle sedute da remoto può semplicemente voler dire che non è consapevole dell’impatto che queste variazioni di setting hanno su di lui.

Direi dunque che c’è una sorta di voyeurismo invertito, esibizionismo dell’intimo, intrusione forzata da parte del terapeuta. Sono elementi di cui tenere presente il ruolo e la non neutralità. Questo aspetto, confesso, non è di facile collocazione. Lo spazio di ascolto in seduta è un luogo di sospensione e di incontro al tempo stesso. Il paziente entra in un luogo altro, separato da ogni aspetto del suo quotidiano dove sospende il fluire della sua vita per lasciare emergere ogni sensazione che a causa degli aspetti della propria personale psicologia è stata dispersa in qualche modo. Al tempo stesso, il flusso di queste sensazioni-percezioni pensieri si incontrano nell’ascolto del terapeuta con i suoi pensieri, immagini e proiezioni. Lo spazio di ascolto in terapia è uno spazio di sospensione e incontro tra menti, e questo rende possibile un sognare condiviso, un riattivare i processi mentali in un senso rielaborativo e psicoterapeutico. È uno spazio virtuale, artificiale, in cui la fantasia diviene reale e viceversa. Quando per lo spazio di ascolto viene usato un dispositivo a distanza la virtualità diviene insita nel mezzo tecnologico. Viene in mente l’immagine di un innesto di parti robotiche o cibernetiche su corpi umani. Non immaginiamo più l’essere artificiali, possibili, virtuali ma pezzi di noi lo diventano realmente artificiali: il virtuale rende reale la finzione e ci priva delle nostre possibilità immaginative.

Il mezzo elettronico mi connette alla stanza da letto del paziente, la vedo, vedo come tiene in ordine il letto, quali quadri guarda prima di addormentarsi. Come si sa: il vedere è il peggior nemico dell’immaginare.

2.      La sensorialità

  L’incontro da remoto si fonda su una profonda perversione degli aspetti sensoriali.

Oltre a non respirare la stessa aria del nostro interlocutore, esigenza assurta a valenza sacra in tempi di pandemia, vi sono molti altri aspetti sensoriali che vengono pervertiti. Parlo di perversione perché la sensorialità dell’incontro in presenza non viene semplicemente sottratta o soppressa, ma piuttosto deviata in dei modi che in certi casi mimano quella reale e in altri ne amplificano alcuni aspetti a discapito di altri.

La vista

L’aspetto più deviante in assoluto, di cui sono grato ad una paziente per avermelo fatto notare, è quello relativo allo sguardo. In un incontro da remoto non sapremo mai se ci stiamo realmente guardando negli occhi. Se guardo negli occhi il mio interlocutore, lui non si sentirà guardato negli occhi; per ottenere questo effetto dovrei guardare la telecamera e non l’immagine dei suoi occhi.

L’aspetto asincrono dello sguardo non è affatto banale. Sappiamo bene come la prima consapevolezza di sé si fonda sul riflesso dello sguardo materno.

Un altro aspetto inerente alla vista è ciò che posso vedere e non vedere. Entrambi i partecipanti decidono il taglio da dare alla propria inquadratura. Noi parliamo con tutto il corpo, ascoltiamo con lo sguardo e con lo sguardo comunichiamo, mentre ascoltiamo possiamo sentire l’esigenza di guardare la persona in volto, in una parte del suo corpo, guardare una parte del nostro corpo o non guardare affatto. Non è tutto cosciente questo processo, tutt’altro, ma entra a far parte di una corrente di comunicazione tra gli inconsci dei partecipanti. L’emozione del paziente traspare dall’intero suo corpo e viceversa l’emozione del terapeuta in ascolto ed in parte il contenimento di quella stessa emozione attraversa il corpo del terapeuta. Tutto ciò non possiamo vederlo attraverso uno schermo, se non in modo parziale. Questa parzialità a volte è sufficiente, ma affinché funzioni si deve basare sul ricordo di una totalità percepita: solo se paziente e terapeuta si sono già visti abitualmente in presenza, l’incontro da remoto diventa per questo aspetto un surrogato sufficientemente valido.

Sempre per ciò che concerne la vista infine, e questo ritengo sia l’aspetto che l’incontro da remoto aggiunge in modo indebito, c’è la possibilità di vedere se stessi in interazione con l’altro. A quale terapeuta verrebbe in mente di posizionare uno specchio alle spalle del paziente e uno alle spalle del clinico nella sua stanza di terapia? Chi congegnerebbe una stanza di terapia di modo che entrambi i partecipanti possano costantemente vedersi mentre interagiscono? Chissà se questo non può essere inteso come una inconscia compensazione di ciò che lo sguardo asincrono non può dare: dal momento che non mi posso rispecchiare nello sguardo del mio interlocutore, mi vedo da me, mentre parlo ed ascolto. Da remoto non faccio una seduta di terapia, ma mi vedo farla: come se questo potesse rafforzare il senso di irrealtà insito nell’incontro da remoto.

Gli altri sensi – udito e olfatto

Gli altri sensi vengono ridotti (udito) o amputati del tutto (olfatto). Su questo mi limito ad osservare che ci priviamo della percezione condivisa di un ambiente. Può apparire di poco conto, ma è importante avere in mente che la percezione contemporanea e condivisa di un suono o di un odore rende l’incontro tridimensionale. In quel momento i due partecipanti l’incontro condividono la percezione di un terzo oggetto. Questa eventualità a mio parere amplifica la possibilità che l’incontro tra menti divenga tout court tridimensionale, che vi sia la possibilità di percepirsi reciprocamente come osservatori di oggetti terzi e condivisi, così come osservatori per estensione dei processi mentali del paziente come elemento terzo e condiviso.

3.      Le potenzialità insite in un incontro in presenza.

L’ultimo punto che vorrei esaminare è il fatto che i sentimenti e le pulsioni erotiche ed aggressive assumono un’importanza assai diversa se l’incontro è in presenza o da remoto.

Questo ovviamente non comporta delle considerazioni in assoluto, ma sempre relative alla specifica struttura di personalità del paziente, così come al peculiare momento del suo percorso terapeutico.

Presentiamo alcune semplici considerazioni dal punto di vista del paziente.

Il paziente parla, è sul lettino o seduto di fronte a noi. Inizia a sentirsi per qualche motivo minacciato, colpevole e attribuisce a noi che lo ascoltiamo un sentimento di rabbia e riprovazione. Io non credo che la stessa possibilità si potrebbe vivere da remoto. E non parlo di intensità, ma di possibilità. Credo che il remoto non abbia semplicemente la funzione di attenuare dei vissuti, di far sentire maggiormente protetti perché la realtà con l’incontro con l’altro è attenuata o ridotta. Credo che in alcuni casi privi proprio della possibilità che questo avvenga. Diamo il caso di un uomo che ha avuto un genitore violento: siamo sicuri che rivivrebbe il senso di minaccia vissuto col genitore, parlando di sé attraverso un computer piuttosto che in presenza? Credo di no, credo che affinché si attivino alcuni ricordi, le situazioni debbano avere delle qualità sensoriali che permettano di essere recuperate. Analoghe considerazioni possono essere fatte con le pulsioni erotiche.

Vignette cliniche.

Riporto tre episodi che mi sembrano esemplificativi di alcune tematiche riportate. Premetto, come si sarà intuito da quanto scritto sin qui, che non ho mai preso in cura alcun paziente con l’intento di riceverlo per via esclusiva con sedute da remoto. Ho utilizzato questo strumento solo in via eccezionale nel corso della pandemia. Successivamente alla fine dei lock down ho mantenuto la possibilità di fare sedute da remoto all’occorrenza, sia in relazione a situazioni legate alla pandemia che a situazioni legate ad esigenze personali dei pazienti (non mie ovviamente) di salute o meno. Le vignette che riporto, anche se espresse in prima persona, sono relative sia al mio lavoro che a quello di alcuni miei colleghi e colleghe.

1° vignetta clinica (la terapeuta è una donna)

Il paziente mi chiede una seduta da remoto per esigenze personali. Nella seduta da remoto parla della sua amante. Il paziente mi aveva parlato di questa amante solo dopo molto tempo l’inizio della terapia. La volta che me ne parla (in presenza) lo fa con grande fatica. Quella prima volta che ne parla, afferma che non affrontare questo tema vuol dire non riconoscere il vero motivo per cui ha chiesto di intraprendere un percorso. Dopo avermene parlato, non riprende più l’argomento. Dalle associazioni del paziente e dal precedente percorso svolto con me, intuisco che vi sono anche aspetti di transfert erotico nei miei confronti. Dopo la seduta da remoto in cui parla della sua amante, quando torna in presenza, non riprende più l’argomento. Nuovamente accade che il paziente chiede una seduta da remoto e, nuovamente, in quella sola occasione mi parla della sua amante.

Mi diviene possibile leggere questi movimenti del paziente come l’esigenza di attenuare l’intensità del transfert erotico attraverso le sedute da remoto e avere modo di parlare dei suoi tradimenti. Diventa quindi possibile condividere anche in presenza con il paziente questi suoi contenuti.

Questo esempio rivela una possibilità trasformativa delle sedute da remoto. Tuttavia questa possibilità è data solo e soltanto dal fatto che sono inserite in una cornice ben definita di sedute abitualmente in presenza.

2° vignetta clinica

Il paziente ha il covid e mi chiede di svolgere la seduta da remoto. Sono alcune sedute che sta affrontando il racconto lungo e sentito della sua ultima relazione sentimentale. Condivide con me alcuni contenuti importanti relativi alla fine di questa storia, ma poi dice che un aspetto di questa storia preferisce dirmelo la volta successiva quando sarà in presenza. Alla seduta successiva riprende il racconto e al momento di riferirmi il passaggio che aveva preferito tenere in sospeso, scoppia a piangere.

Il desiderio, forse la necessità del paziente, era di piangere in presenza. Le lacrime devono essere viste e sentite, non possono essere veicolate da uno schermo. Il paziente doveva sapermi presente lì con lui mentre si sarebbe messo a piangere. La storia di questo paziente è fortemente intrecciata con questi contenuti: a causa di alcuni eventi vissuti nel corso della sua infanzia soffre di forti sentimenti di abbandono e solitudine.

3° vignetta clinica

La paziente ha il covid, che ha contratto mentre la madre è a casa per una grave malattia. Mi scrive un messaggio nel quale nonostante sappia della possibilità di vederci da remoto (già era successo) preferisce saltare la seduta. Mi assicura che pagherà comunque. Rispondo ribadendo che sarò comunque disponibile a collegarmi qualora lo volesse.

Alla seduta successiva mi racconta che la madre è morta. Poi capisco che è morta prima che disdicesse la seduta e che lei non poteva fare la seduta da remoto per riportarmi questo evento così importante (la paziente tra l’altro è molto giovane).

Mi racconta due sogni.

In uno sogna che la madre si risveglia, la paziente nel sogno pensa che questo non sia “giusto”, dice alla madre, come le ha detto molte volte quando era ancora in vita, che si deve riposare. Nel sogno prova sempre più inquietudine, fino a che la paziente non la guarda negli occhi e non la riconosce.

Nell’altro sogno ha una sveglia in mano che in modo inesorabile segna il passare del tempo. Sa che è in arrivo un’apocalisse, potrebbe finire il mondo e lei invece di non perdere tempo e scappare, va nella sua stanza a raccogliere gli oggetti che vuole portare via con sé. Mi racconta che nella sua stanza conserva dei piccoli oggetti che sono la testimonianza della sua storia, del suo passato, ad esempio le penne che usava alle elementari, che le piace conservare per ricordare quei tempi.

Mi colpisce nei due sogni il contrasto tra la memoria veicolata da una persona che si risveglia ma che non si riconosce e la memoria veicolata da oggetti morti che tengono fissati dei ricordi.

Non mi soffermo sull’interpretazione di questi due sogni molto interessanti. Tuttavia mi limito a notare come anche in questo caso la paziente senta il bisogno della presenza per veicolare questi suoi contenuti così vitali e che questo mi sembra entri in risonanza con il tema dei sogni tra ricordo vivo-trasformativo e ricordo morto-fisso (ricordiamo che è nel sogno dei ricordi veicolati da oggetti che è in arrivo l’apocalisse, la fine del mondo interno).

Conclusioni

Come si può capire bene dalle vignette riportate, lo strumento delle sedute da remoto può diventare molto utile se inserito in una cornice di incontri in presenza. Nutro viceversa molti dubbi sulla possibilità che possa essere considerato uno strumento alternativo ed esclusivo alla psicoterapia effettuata in presenza. Nel nostro lavoro non ci limitiamo a fornire consulenza sulla base delle informazioni che ascoltiamo ed integriamo con le nostre conoscenze intellettuali, ma offriamo la possibilità di sentire con il paziente ciò che non è stato possibile sin qui cogliere, elaborare e trasformare. Unicamente l’incontro di persona può rendere completa la possibilità che ciò avvenga.

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