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In cosa consiste la psicoterapia?

In cosa consiste la psicoterapia? Come funziona? Perché può essere di aiuto e in che modo?

1. È questione di metodo

Queste sono domande molto comuni, e non solo tra chi per la prima volta si avvicina ad una psicoterapia. Per iniziare a rispondervi ho deciso di prendere spunto da un libro, una sorta di manuale, molto valido e molto specialistico sul tema (Il setting psicoanalitico di René Roussillon); facendo ricorso ad un metodo particolare: immagino di leggerlo ad alta voce ad un pubblico profano e di doverne spiegare i passaggi. Non si tratta di rendere accessibile un libro difficile, ma di partire da tutti quei temi, argomenti e affermazioni che un libro specialistico per forza di cosa deve attraversare e che per altrettanta forza di cose deve tralasciare inspiegate, soffermarmi su ognuno di essi per renderlo comprensibile ai non specialisti.

Ok, partiamo dal titolo: Il setting psicoanalitico

Immaginate di andare da uno psicoterapeuta: dopo qualche incontro conoscitivo, è probabile che vi dirà che è il caso di iniziare un percorso che si svolgerà secondo un determinato modo: questo modo sarà un insieme di istruzioni del tipo venire uno o più giorni a settimana, sempre nei medesimi orari, lasciarsi andare nel dire tutto ciò che vi passa per la mente, oppure no, seguire un altro tipo di compito (ad es. raccontare per il filo e per segno tutti i pensieri che avete fatto da quando vi siete alzati la mattina fino ad un attimo prima di sedervi per fare colazione).

Insomma sarete istruiti su un insieme di regole da seguire affinché ci si possa iniziare ad occupare con metodo della vostra psiche per affrontare le problematiche di cui avete un’idea più o meno chiara. Ora l’insieme di queste regole, prescrizioni, indicazioni e divieti prende il nome di setting.

Ovviamente, esistendo diversi approcci psicoterapeutici (psicoanaliticocognitivo comportamentalesistemico – etc), l’insieme di queste regole muta, ma tutti gli approcci psicoterapeutici hanno un setting che si fonda sulle teorie proprie di quell’approccio. È altrettanto ovvio che ogni psicoterapeuta avrà un suo personalissimo modo di interpretare l’approccio terapeutico di riferimento e di suonare lo spartito delle regole che ne consegue nel modo a lui più consono.

Poiché il mio approccio è psicoanalitico, il setting, l’insieme delle regole che fonda il procedimento terapeutico di mio interesse, e di cui so dire ed esplicitare qualcosa in più, è appunto psicoanalitico.

Non è un caso tuttavia che al contrario di altri approcci, nel caso della psicoanalisi, esista una fiorente letteratura sul tema specifico del setting, ma questo è un altro tema, enorme: ne faccio cenno solo per dire che lo strumento di base su cui si fondano tutte le psicoterapie ad orientamento psicoanalitico, o psicodinamico, è il transfert: la particolarissima ed unica relazione che si instaura tra paziente e psicoterapeuta, relazione che non può che essere influenzata dal setting: dunque nel caso della psicoanalisi si parla del setting per ragionare meglio su quali sono le condizioni che meglio di ogni altra possano favorire una relazione tra paziente e terapeuta che sia favorevole al processo di cura.

Una relazione, badate bene, che diventi centrale nella vita del paziente tanto da essere in grado di mutare degli aspetti profondi del sé, senza che al tempo stesso diventi qualcosa da cui il paziente finisca per dipendere tanto da non poterne fare a meno.

2. Penso dunque penso

Nell’introduzione al libro, l’autore si propone di “mostrare come il quadro ( = setting) debba simbolizzare la simbolizzazione stessa“, per poi proseguire con altre frasi che sembrano traduzioni dall’arabo in sanscrito. Vi confesso che il senso di questa frase, e della introduzione tutta, mi è diventato chiaro solo dopo aver letto un paio di volte tutto il libro dall’inizio alla fine, ma non è questo il punto: il setting (che l’autore qui chiama “quadro”) ha in psicoterapia una funzione specifica, ovvero quello di favorire il processo di simbolizzazione nel paziente.

Dunque ciò da cui partire, il sottinteso senza il quale non si comprende altro, è: l’obiettivo della salute psicologica che la terapia si prefigge è favorire la simbolizzazione nel paziente.

Ok: cosa è la simbolizzazione e perché è così importante per la salute mentale??

Tutti noi, in quanto dotati di linguaggio, abbiamo di base la capacità di simbolizzare, ovvero esprimere con dei suoni, le parole (simboli), delle cose. Questa capacità conosce diversi gradi, sfumature, ambiti di applicazione, etc.

Faccio subito un esempio per capire il nesso tra dolore (mentale) e simbolo: osservate un bambino che da poco ha iniziato a parlare. Gli capita di farsi male, si schiaccia un dito nella porta, va dalla mamma urlando e piangendo, la mamma gli chiede cosa è successo, ora il bambino piange, poi smette e parla dell’accaduto, in modo un po’ sconnesso forse, ma il parlare dell’accaduto non lo fa piangere, poi smette di parlare e riprende a piangere, ora un po’ meno forte, poi ne parla di nuovo e ascolta cosa ha dire la madre, poi piange ancora un po’ ma meno forte, etc…
Insomma i più prosaici direbbero: chiaro! Non ha fiato per piangere mentre parla, allora smette. Punto di vista non molto convincente, a meno che non si crede che il piangere sia un fatto di fiato e polmoni… chi piange, piange anche se non riesce più a respirare…
No, l’idea è un’altra: nel momento in cui il piccolo pensa all’accaduto, fa spazio nella mente alla traduzione di esso in parole, l’accaduto diventa meno doloroso. Nei bambini che stanno imparando a parlare, l’osservazione del fenomeno è evidente.

Facciamo un altro esempio, che è un classicone della storia della psicologia, in particolare della psicoanalisi: il neonato che viene allattato.
La prima volta che avrà fame, il bambino non saprà cos’è questa sensazione sgradevolissima e ne rimane alquanto spaventato, forse terrorizzato: la madre che sa interpretare i segnali del suo cucciolo gli presenterà allora il seno, e il bambino tutto contento può ciucciare il suo nutrimento e l’amore di una madre che sa capirlo. Questo processo si ripeterà in modo ricorrente per un po’ di volte e si può facilmente osservare come, successivamente, il bambino affamato non piangerà più in modo altrettanto immediato e disperato. I più prosaici diranno: chiaro! Ha imparato ad aspettarselo e non ha più paura di affrontare la fame… non so questa visione dice qualcosa ma non tutto: ci piace immaginare che il bambino quando prova fame soffre sempre lo stesso, sia la prima che le altre volte. Ma, mano a mano che l’allattamento prosegue, insieme alla fame ha in mente l’immagine del seno materno, la soddisfazione immaginaria del suo bisogno, certo questo non lo soddisfa del tutto, ma un po’ gli allevia la fame… insomma, se sai visualizzare ciò di cui hai bisogno, ne hai ancora bisogno, ma forse sei un po’ meno disperato

E ora veniamo a noi adulti, che parlar di mocciosi in lacrime è troppo facile.

3. Il capo ha un buco nella gomma

Ve la ricordate la canzoncina da mimare? Bhé immaginate che invece di sapere che avete un buco nella gomma sentite solo una serie di suoni senza senso (la brum del hum ha uno psst nella hum…). Nel frattempo l’auto continua a sbandare, i cerchioni si rovinano, e potreste perdere il controllo del mezzo… Insomma fuor di metafora se da bambini, la capacità simbolica si applica ad eventi piuttosto semplici (bisogni fisiologici, dolori fisici, per poi passare alle prime emozioni connesse ai rapporti famigliari), con lo sviluppo e la maturità, ci saranno sempre nuove occasioni e sfide per cui verrà messa alla prova.

Cosa succede quando si soffre senza saperne il perché? Si prova ansia. La definizione che generalmente si dà all’ansia è di uno “stato di paura senza oggetto”, ovvero si prova paura, si ha la sensazione di allarme, ma non si capisce di cosa si ha paura, non si riesce a focalizzarne il motivo.

L’ansia è il sintomo psicologico per eccellenza, ovviamente non è l’unico o il solo, tuttavia la sofferenza psicologica inizia sempre così, poi a seconda dei casi si trasforma in altro. Tendenzialmente il cervello è una macchina che riempie i vuoti di significato.

Si ha un modello esemplificativo di questo da come funziona la percezione: il cervello riceve impulsi luminosi piuttosto frammentati che ricostruisce e trasforma in una visione stabile e continua. Più in particolare è noto il fenomeno della “macchia cieca”, sulla retina abbiamo una zona dove non ci sono recettori perché lì vi passa il nervo ottico, quindi in ciò che vediamo ci manca sempre un pezzo di informazione visiva, una “macchia cieca”, in sostanza si vi fanno vedere un’immagine e vi collocano sopra al posto giusto un buco nero, l’occhio non lo vede perché il cervello ricostruisce per inferenza ciò che dovrebbe vedere…ovviamente gli occhi si muovono in continuazione e in situazioni naturali, non sperimentali, questo non accade.

Quindi di fronte all’ansia, che è un vuoto di significato, la mente tende a riempirlo come può col rischio di prendere lucciole per lanterne. Tuttavia mi fermo dal proseguire oltre su questa direzione che porta verso una definizione ed inquadramento dei diversi tipi di psicopatologia, ovvero i modi funzionali e disfunzionali che la mente impiega per fronteggiare il dolore psichico. Vorrei solo mettere un punto per evitare un equivoco frequente: la salute psicologica o la sua malattia non dipende da un errore cognitivo, appunto uno sbaglio che fa la mente nell’attribuire o costruire il significato di un vissuto ansioso; ma dipende piuttosto dal modo che la mente ha di fronteggiare questi vissuti, come costruisce e verifica le sue costruzioni. È una distinzione sottile ma fondamentale: è come prendere un disegno, mettiamo un ritratto, e concentrarsi su tutti i modi in cui il ritratto non rispecchia il modello, o su altre imperfezioni grafiche, piuttosto che sul modo in cui è stato realizzato: se la matita era impugnata male, se c’è un errore di interpretazione o prospettiva, etc. Insomma gli errori del disegno non sono il problema, ma piuttosto possono guidarci a comprendere gli altri errori che ci interessano, gli errori che ne sono alla base, perché sono questi gli errori che possono ripresentarsi in seguito e che vogliamo prevenire.

Veniamo ora al fatto, a ciò che causa la difficoltà: al perché può accadere di non riuscire a simbolizzare. Siamo adulti, capire perché soffro se mi schiaccio un dito non è più un problema. Ovvero si presuppone che un livello base di sviluppo emotivo e cognitivo sia stato raggiunto: sappiamo distinguere le diverse sensazioni di dolore fisico, di fame, stanchezza, etc; così come dovremmo essere in grado di comprendere le nostre e altrui emozioni di base (gioia, paura, rabbia, tristezza… insomma se su questo avete bisogno di un ripasso la rappresentazione che potete trovare nel film della Disney Pixar Inside Out è di altissimo livello). Tuttavia la vita ci pone di fronte a sfide sempre nuove, e gli eventi che ci ritroviamo a vivere presentano sempre delle occasioni in cui la miscela di emozioni che suscitano può essere estremamente complicata da districare.

In particolare può accadere:

  • di vivere eventi che comportano una tale intensità emotiva da non essere in grado di contenerne il vissuto, di renderlo pensabile al punto da non riuscire ad integrarlo con il resto dei nostri pensieri e vissuti abituali. Ne sono un esempio tipico i traumi o i lutti;
  • di vivere eventi che comportano dei conflitti tra emozioni diverse (ad es. amore-odio) che abbiamo estrema difficoltà a far stare insieme; tipicamente può accadere nei rapporti intimi o con i famigliari più stretti (i rapporti madre-figlia e padre-figlio sono degli ottimi candidati a questo tipo di problemi);
  • di vivere eventi che comportano conflitti tra l’idea, l’opinione che abbiamo di noi stessi, o l’idea che gli altri hanno di noi, e come in realtà ci sentiamo.

E ovviamente, il che non manca mai in nessun buon elenco: un misto dei casi di cui sopra…

Dunque, la conclusione è che simbolizzare è arduo a tutte le età, e può accadere a tutti di incappare in una difficoltà emotiva tale che nel suo prolungarsi si trasforma da stato di ansia passeggero a qualcosa d’altro (attacco di panico, depressione, fino a situazioni un po’ più gravi che compromettono la capacità di pensare lucidamente). Ovviamente il consiglio della nonna è sempre valido: meglio occuparsi prima possibile di questi problemi perché poi diventa un po’ più difficile.

Purtroppo dobbiamo anche notare e dire che se questi eventi per qualche motivo “impensabili” accadono e si strutturano in età precoce, o in adolescenza, insomma durante la formazione della mente e della personalità, il tutto diviene un po’ più complicato, e sono proprio quelli i casi in cui una psicoterapia psicoanalitica, oltre ad essere efficace, diviene particolarmente necessaria.

4. Il grande assente del discorso fin qui: l’altro

Ok: per ultimo, ma non per importanza, prima di passare oltre è importante focalizzarsi su un elemento che è stato sempre presente nel discorso sin qui, anche se in sordina: “l’altro“, ovvero il ruolo che ha il rapporto con gli altri nella salute umana, nello sviluppo e ovviamente nella psicoterapia.

Se è vero che l’essere umano, come detto sin qui, è un essere simbolico, è altrettanto vero che è un animale sociale; o meglio in gran parte l’essere simbolico e l’essere sociale sono due aspetti della stessa medaglia.

Vi ricordate l’esempio del bambino con il dito schiacciato? Bene, implicito in quel discorso è che attraverso il dialogo con la madre il bambino sviluppa una capacità di simbolizzare l’accaduto e dunque tollerare il dolore: è attraverso l’incontro con l’altro che ci sforziamo di immaginare nella sua mente cosa può pensare di noi, ed è attraverso questo sforzo che la nostra capacità simbolica si va costruendo, affinando e definendo negli anni.

Non tutti hanno la fortuna di crescere con dei genitori o tutori che riescono a far loro abbastanza spazio nelle loro menti affinché possano trovarsi, riconoscersi e definirsi. Si ritiene tra l’altro che lo sguardo della madre è il primo specchio (interno) del bambino.

In modo più prosaico, alcuni studiosi hanno definito “teoria della mente” questo elemento necessario allo sviluppo della capacità di comunicare sia i una comunicazione con l’altro che con se stessi (una sorta di dialogo interno): “teoria della mente”. Questa acquisizione si situa intorno ai tre anni di vita e fa sì che da quel momento in poi il bambino è in grado di percepire che chi gli sta intorno è dotato di una mente autonoma, diversa dalla propria e che non coincide con la sua nelle percezioni, pensieri ed emozioni.

Ovviamente questa è una iper semplificazione, che tuttavia aiuta a capire meglio: in sostanza dai tre anni circa i bambini sono in grado di comprendere che ciò che loro sanno non passa automaticamente nella mente di chi gli sta intorno, con la simpatica conseguenza che diventano in grado da ingannare gli altri, di far credere loro di sapere qualcosa che non sanno, oltre a partecipare a giochi più complessi. L’esperimento classico per verificare se sia presente o meno questa acquisizione è quella di stare in una stanza con un bambino, fargli vedere dove si nasconde un oggetto, poi farne entrare un altro e chiedere al primo bambino, che ha visto dove avete nascosto l’oggetto, dove secondo lui l’altro bambino (che nulla sa) andrà a cercare l’oggetto. Se il bambino ha una teoria della mente vi dirà che lo cercherà in un posto sbagliato, se invece non ha una teoria della mente, vi dirà che lo cerca lì dove vi ha visto nasconderlo.

Come sopra, anche questa è un’acquisizione base, che ha una sua storia e sviluppo nel corso della maturazione dell’individuo, oltre a diversi inciampi e possibili regressioni (ovvero la possibilità che di fronte a certi eventi traumatici possa tornare indietro, o scomparire temporaneamente). Insomma, ad un livello base serve a giocare a nascondino, livello di cui in una certa misura sono dotati anche i pappagalli (ma non i cavalli, che se non vi vedono pensano a loro volta di non essere visti da voi), ma ad altri livelli più evoluti permette di cogliere e prevedere gli stati d’animo che le persone che conosciamo possono vivere in risposta a quanto gli accade. E ovviamente è a fondamento e legame di ogni rapporto intimo, dove l’idea che l’altro ha di noi stessi gioca un ruolo non marginale nel rendere un rapporto felice o fonte di sofferenza.

Insomma, mi rendo conto che questo è un tema complicato, arduo da trattare senza il rischio di svilirlo. Intanto, per concludere, ritorniamo su un concetto chiave della psicoterapia psicoanalitica che condensa i due aspetti di cui sto parlando: la capacità di simbolizzare e la capacità di avere una teoria della mente, ovvero il transfert.

5. La Trasferta: che emozione!

Il transfert, ne ho fatto cenno prima vi ricordate? No, è normale: ne parlavo per dire che è la particolarissima relazione che si forma tra paziente e terapeuta anche in base a come si imposta il setting.

Allora, prima di tutto ecco un aneddoto sulla “scoperta” del transfert ad opera di Sigmund Freud nel primo caso clinico psicoanalitico da lui pubblicato. Essendo agli esordi, la sua tecnica non era ancora stata del tutto messa a punto: si occupava per lo più di analizzare i sogni e non aveva ancora compreso il ruolo determinante del transfert sul processo terapeutico. Nel corso di questa breve terapia, perché interrotta prematuramente dopo tre mesi dalla paziente, Freud si occupò principalmente di analizzare i sogni fino ad incappare in una “manifestazione di transfert” che condusse alla fine prematura del trattamento. Da questo momento in poi capì e di conseguenza teorizzò che il transfert interviene sempre in ogni trattamento; che il trattamento se ben condotto è in grado di mettere in luce il transfert (cioè non ne è la causa, non lo produce, ma lo scopre e lo rende analizzabile); che da peggior nemico (mortale) del trattamento diviene il suo miglior alleato.

Semplificherò al tal punto la questione (clinica) che non bisogna trovarvi quasi nulla di quanto realmente Freud intendesse dire e trasmettere, ma credo sia comunque utile per farsi una prima idea.

Aneddoto di un trattamento di Freud per capire cos’è il transfert:

La paziente, giovanissima, era in cura per una serie di sintomi piuttosto gravi che oggi definiremmo psicosomatici (dolori fisici senza cause organiche). Nel corso del trattamento Freud viene a conoscenza che la paziente è portatrice di un segreto famigliare: suo padre ha una relazione con un’altra donna sposata, inoltre questa donna e il marito sono dei cari amici di famiglia. Nel corso del trattamento, anche grazie all’analisi dei sogni, Freud intuisce e viene a sapere che la giovane paziente durante un soggiorno estivo nel quale era ospite di questi amici di famiglia, ha subito della avances sessuali dal marito della signora con cui il padre ha la relazione adultera. E fin qui si può comprendere la perniciosissima situazione in cui si trova la paziente, i suo conflitti di fedeltà, il non potersi avvalere dell’aiuto dei genitori e quant’altro.
Ora ecco la parte dove interviene il transfert (non elaborato). Al termine dell’analisi di un ulteriore sogno da cui era stato possibile esplicitare e condividere molti altri pensieri non espressi prima dalla paziente, questa comunica a Freud la sua decisione di interrompere il trattamento in modo improvviso.

Freud le chiede quando ha maturato questa decisione, e lei risponde di averlo deciso 15 giorni prima. Freud nota dunque che 15 giorni è il preavviso che di solito dà il personale di servizio per comunicare le dimissioni. Da qui la paziente ricorda che durante il soggiorno estivo, quando era ospite dalla coppia di cui sopra, poco prima delle profferte sessuali da parte dell’amico del padre, una cameriera le disse che aveva intenzione di comunicare le sue dimissioni perché il padrone, quello stesso uomo, aveva avuto un approccio con lei, a cui lei aveva ceduto ed in seguito al quale lui aveva poi fatto finta di niente.

Questo dà modo a Freud di notare che la paziente, nel comportamento con lui stesso, sta riproducendo per alcuni tratti il comportamento della cameriera (con cui vi si è identificata), lo sta lasciando con il preavviso di 15 giorni, e dall’ulteriore analisi del materiale e del racconto diventa possibile cogliere che parte della reazione negativa della ragazza alle profferte sessuali dell’amico del padre erano legate ad una reazione di gelosia indotta dalla confessione della cameriera.

Ovviamente questo pensiero, la gelosia, era quello più particolarmente e vividamente intollerabile per la paziente, motivo per cui diventa necessario “agirlo” ovvero ripeterlo attraverso un’azione, un comportamento, invece che ricordarlo o al più sognarlo.

Ecco qui, illustrato in poche parole, nel vivo cosa può essere il transfert. È qualcosa di molto contorto, nascosto, sottile e potente io credo. È qualcosa che quando in terapia, da paziente capita di viverlo, sommuove profondamente e, se ben gestito e trattato, diviene il vero motore del cambiamento, oltre alla principale possibile causa dell’interruzione di un trattamento. Ho preferito raccontare questo aneddoto storico e classico, perché la definizione e la descrizione del transfert che di solito si conosce non dà l’idea della complessità del fenomeno.

L’elemento chiave del concetto, che ne giustifica anche il nome (transfert o traslazione), è che qualcosa viene trasferito, qualcosa che il paziente ha vissuto, che non è stato in grado di elaborare in modo autonomo e che finisce per ripetere nel rapporto attuale con lo psicoterapeuta (oltre che con chiunque altro si possa prestare, con la sola differenza che lo psicoterapeuta dovrebbe essere in grado di coglierlo e renderlo analizzabile).

Non vorrei prolungarmi oltre sul tema: del transfert esistono tante differenti definizioni, di cui alcune anche “operative”, cioè finalizzate alla sua osservazione a scopi di ricerca, così come esiste un’estesa letteratura sia clinica che sperimentale sull’argomento. La versione popolare del concetto è quella che attraverso il rapporto con lo psicoterapeuta il paziente rivive alcuni aspetti non risolti delle sue passate relazioni, in particolare le relazioni infantili con i propri genitori. Questa idea è un po’ riduttiva e un po’ falsa e non porta molto lontano. Piuttosto il punto interessante è che laddove vi è qualcosa che ci fa problema, un tarlo della mente, un assillo, un bisogno o un desiderio inappagato, un’insicurezza, etc è probabile che all’interno di un rapporto intimo e profondo tenderemo a far rivivere quel qualcosa che ci fa problema all’interno del rapporto e tenderemo a farlo in modo inconsapevole. D’altronde questo è in stretta continuità con ciò che caratterizza il modo in cui si sviluppa la mente: laddove il bambino vive una sensazione o un’emozione senza capirne il senso, piangerà e sarà la madre sufficientemente attenta e presente a saperle dare un significato attraverso l’accudimento.

Dunque qui arriviamo all’altra faccia della medaglia del concetto: la simbolizzazione. Tornando a Freud, la prima volta che Freud usa la parola transfert non è nel caso clinico di cui sopra, ma nella sua prima opera che lo consacra in quanto fondatore della psicoanalisi: L’interpretazione dei sogni.

Per spiegare il meccanismo della creazione ricorre appunto alla stessa parola, transfert: perché?

Ecco in quattro righe il sogno per Freud

Nel nostro animo ci sono dei desideri che si formano durante l’infanzia e di questi desideri non ci libereremo mai nel corso della nostra vita. Sono un motore, una spinta fondamentale e sono alla base di molte nostre scelte. Allo stesso modo questi desideri entrano naturalmente in conflitto e possono pertanto diventare inconsci: entrano in conflitto con le aspettative che gli altri per noi importanti hanno verso di noi, o anche con l’aspettativa che noi stessi abbiamo nei nostri confronti. Insomma, capita di sovente che questi sono desideri inconfessabili e che siano stati rimossi dalla coscienza.
Tuttavia sono sempre attivi, sia di giorno che di notte, mentre dormiamo. Durante la notte accade che la mente ha a disposizione tutti i ricordi recenti, più che altro roba poco significativa, o perché è accaduto da poco e non lo avete collegato alle mille altre cose importanti della vita, o perché fa parte dell’accadere quotidiano che scorre senza particolare interesse. Dunque la mente prende qualcosa di questo materiale e vi trasferisce, se vi trova un qualche appiglio, quei desideri infantili che per una ragione o l’altra sono diventati inconsci. Esatto, usa proprio la stessa parola: vi è un transfert di emozione, di significato, di desiderio, dal desiderio frustrato subito in infanzia, sul ricordo recente e pressoché insignificante. In questo modo, sostiene Freud, il sonno non ne resta granché turbato, sogniamo che quel desiderio che abbiamo rimosso viene appagato, ma al tempo stesso non ci rendiamo conto che stiamo mettendo in scena proprio quel desiderio lì. Bello contorto vero? Eh già semplice non è…
Insomma il compito, ruolo e scopo dello psicoanalista è creare una situazione terapeutica analoga al sogno dove lui stesso diventa quel materiale diurno recente poco significativo su cui ogni notte trasferiamo in modo innocuo i nostri più reconditi desideri, per poterne parlare, condividere e risolvere quei conflitti che li hanno resi inconsci.

6. Conclusioni

Ho dunque tentato di accennare ad alcuni principi fondamentali su cui si basa e a cui si ispira una psicoterapia ad orientamento psicoanalitico. Mi auguro che questo abbia suscitato più domande che risposte; anche perché come poi tutto ciò si dispiega nel concreto è veramente singolare in strictu sensu: dipende da ogni singola situazione!

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